Colini Baldeschi concorda invece con l'opinione di Cassio Dione sul movente essenzialmente personale e antagonistico: "l'opinione dello storico greco, secondo me, rappresenta la vera ragione, o almeno la più potente a spingere Labieno verso i Pompeiani. Un moto d'ambizione poté essere coperto dal velame di ragioni politiche; nel carattere di Labieno regnava alcun che di boria e la fortuna lo aveva anche aumentata. Ei troppo sentì la parte presa nella guerra del 52. L'ottavo libro dei Commentarii segna una continua ascensione di Antonio e una diminuzione di Labieno (…) Cesare nel 51 e nel 50 preferì la vicinanza e gli onori di Marco Antonio, che come uomo politico era superiore a Labieno (...) Il Cingolano non era uomo politico: il suo mal d'animo verso Cesare fu presto adescato dalle parole dei Pompeiani" (50).
Piuttosto diversa è l'opinione espressa dall'Abbott. "Non abbiamo prova che egli era geloso di Cesare o che si sentì umiliato o maltrattato da lui. Egli era probabilmente di umili origini, ed è possibile che i leaders senatoriali gli offrirono speranze brillanti di una carriera sociale e politica. Egli può aver pensato al non promettente futuro di Cesare (...) Si guarda come se Labienus sapeva che Cesare si aspettava la guerra che sarebbe seguita e che sentì che i piani del suo comandante implicavano insuccesso, o anche che Labieno fece un astuto pronostico sulla forma della lotta che il suo capo avrebbe intrapreso" (51).
Secondo Vittoria Augusti, invece, "la questione va studiata sotto un altro punto di vista, quella cioè del lealismo di Labieno verso la costituzione repubblicana nella ricerca di un motivo psicologico-politico, il quale sta a suo posto nell'animo di quel valoroso soldato, tanto valoroso in armi, quanto ottuso in politica. Il giuramento di fede alla costituzione impegnava il soldato romano in modo assoluto (52).