Per il Syme non si trattò di tradimento ma una presa di coscienza dell'antica fides e amicitia che lo legavano a Pompeo. Scrive a proposito l'Alfieri: "Il Cingolano avrebbe mantenuto una sostanziale coerenza. L'origine picena autorizza a pensare alla sua appartenenza alla clientela di Pompeo; la stessa attività iniziale come tribuno della plebe lo mostra legato a Pompeo; il passaggio al seguito di Cesare nelle Gallie avvenne in armonia con gli accordi fra Cesare e Pompeo nel I triumvirato. Solo quando le relazioni tra i due leaders si guastarono, Labieno si trovò in crisi, sicché il suo passaggio a Pompeo non sarebbe stato, in sostanza, che il ritorno alle origini" (53).
Anche Michel Rambaud non definisce un tradimento il passaggio di Labieno con Pompeo; l’opinione dello studioso viene così sintetizzata dall'Alfieri: "Cesare viene accusato di denigrazione sistematica, sia perché dedica poche espressioni ai meriti del suo luogotenente nella guerra gallica, sia perché amplifica o inventa le responsabilità o le perfidie di lui nella guerra civile; sicché il fedele Labieno del Bellum Gallicum resta un personaggio senza grandezza letteraria, mentre il perfuga del Bellum Civile riceve uno sviluppo satirico e drammatizzato" (54).
Jacques Harmand punta, invece, su un episodio ben preciso della guerra in Gallia che avrebbe condizionato pesantemente la carriera e il futuro di Labieno. Lo studioso si riferisce all’agguato che Labieno tese al re degli Atrebati Commio, nell'inverno del 53-52 a.C., mentre Cesare si trovava nella Gallia Cisalpina. "Cesare infatti vedeva nella mediazione dei notabili gallici un elemento fondamentale per la stabilizzazione della conquista. Di qui l'esclusione di Labieno da gran parte del teatro delle operazioni in Gallia e l'origine del dissenso che sfociò nella discessio" (55).